La Canzone Popolare

Avere 40 anni è come trovarsi in bilico tra un’esistenza che non ti appartiene più e un’altra che vorresti far nascere di nuovo, soprattutto per vedere come potresti diventarne personaggio principale, facendo saltare tutte le regole che ti eri imposto fino a poco fa.

Ma ci si riesce davvero? È quello che sembra chiedersi Nicolas Mathieu nel suo nuovo romanzo, dove Hélène, insoddisfatta della propria ordinaria vita di successo, con figli, marito e responsabilità aziendali, cerca una via di uscita. È sempre stata brava Hélène nell’affrontare la vita seguendo al massimo le proprie aspirazioni, fuggendo da una realtà provinciale per concretizzare la propria irreprensibile carriera scolastica.

Christophe invece ha da poco superato i quaranta, era molto bravo nello sport e non ha mai abbandonato il piccolo centro in cui lui ed Hélène erano cresciuti, vende cibo per cani, ha un padre, un figlio e qualche amico che per lui sono quasi più importanti di una famiglia, o forse sono la sua vera famiglia. Non ha mai fatto nulla di eclatante per cambiare la sua routine, eppure è convinto che il destino potrebbe riservargli ancora qualche sorpresa.

Sin dai primi capitoli sappiamo che Hélène e Christophe sono destinati ad incontrarsi, loro, così diversi, così lontani e così vicini, in un turbinio di amicizie e conoscenze comuni che passano dalle scuole superiori sino alla vita più adulta. La loro canzone popolare, fatta di voci adolescenziali e musica anni ’90, forse è ancora attuale, almeno per fare da contorno ad una storia che ci accomuna: la paura di sbagliare e la fiducia che andrà comunque tutto bene; la tenerezza di un incontro e l’assoluta distanza di un arrivederci.

Un libro profondo, semplice, nostalgico, ma soprattutto reale.

Sono io stessa il cielo

Chiarimento a margine

Polvere

non sono

e polvere

non tornerò.

Non sono scesa

dal cielo

e in cielo non salirò.

Sono io stessa il cielo

come solaio di vetro.

Sono io stessa la terra

come fertile terreno.

Non sono fuggita

da nessuna parte

e non ci

tornerò.

Oltre a me stessa non conosco altra distanza.

Nel gonfio polmone del vento

e nella calcificazione delle rocce

devo

me stessa

qui

dispersa

ritrovare.

Camonghne Felix, in Un via vai di brumose apparenze, (trad. Alessandro Amenta) 2023

Immobilità

Oggi mi sono svegliato mentre il mio gatto mi teneva ostaggio con ripetuti agguati sopra il piumone. Era mattina presto, qualcosa come le 5 e 40. Così mi sono svegliato, gli ho dato da mangiare, mi sono messo sul divano a leggere.

Non ho più preso sonno.

La cosa che mi più mi perplime è che i gatti, come animali, credo soffrano di narcolessia. Durante il giorno, nelle poche ore di veglia sembrano attivi, poi piombano in una zona di ombra, fatta di immobilità e calore. E allora penso che ogni tanto vorrei poter cadere anche io da un momento all’altro così, avvinghiarmi a me stesso, in posizione fetale, dormire e magari sognare. Anche solo il suono scrosciante di una manciata di croccantini.

A chi gioverebbe?

Ratti
e meduse
sopravvivranno.

Scarafaggi e
capibara
sopravvivranno.

Zanzare, moscerini,
echidne dal morbido muso di
adolescenza post-apocalittica

sicuramente
sopravvivranno.

Noi – tumori maligni
d’origine infausta, contagi
concepiti da ominidi – invece no.

E comunque, a che e chi
gioverebbe se sopravvivessimo?

Un altro secolo spaventoso
è finito
in apatia vanagloriosa e
dolori esibiti, finito
nelle nostalgie argentate della guerra.

Tra alcune migliaia di anni, le stelle
saranno troppo distanti per vederle, lo spazio negativo
del cielo una nuova ecchimosi nella nostra progenie.

Tra alcune migliaia di anni, un figlio
del mio sangue alzerà lo sguardo
alla coppa della notte e bramerà un ricordo.

Gli esseri umani vivono
per trovare significato, per lasciare nitida traccia
di un Perché ineludibile, collettivo.

Immaginate, allora: un crepuscolo
non cosparso di stelle. Ci riuscite?
E comunque, a che e chi
gioverebbe il significato
allora?”

Camonghne Felix, in Freeman’s. Animali, 2023

Pensare

“Penso che ci dovrebbero sempre essere individui indipendenti che si sforzino, per quanto ciò possa sembrare donchisciottesco, di far cadere un paio di teste, di distruggere allucinazioni, falsità e demagogie, di restituire complessità al mondo, contrastando l’inevitabile tendenza alla semplificazione. Ma la cosa più terribile per me sarebbe accorgermi che sono ancora d’accordo con quello che ho già scritto e detto – è la cosa che mi renderebbe più infelice, perché vorrebbe dire che ho smesso di pensare.”

Susan Sontag, Odio Sentirmi Una Vittima, Il Saggiatore 2016

Una ballata

Quando ci penso, che il tempo è passato,
le vecchie madri che ci hanno portato,
poi le ragazze, che furono amore,
e poi le mogli e le figlie e le nuore,
femmina penso, se penso una gioia:
pensarci il maschio, ci penso la noia.
Quando ci penso, che il tempo è venuto,
la partigiana che qui ha combattuto,
quella colpita, ferita una volta,
e quella morta, che abbiamo sepolta,
femmina penso, se penso la pace:
pensarci il maschio, pensare non piace.
Quando ci penso, che il tempo ritorna,
che arriva il giorno che il giorno raggiorna,
penso che è culla una pancia di donna,
e casa è pancia che tiene una gonna,
e pancia è cassa, che viene al finire,
che arriva il giorno che si va a dormire.
Perché la donna non è cielo, è terra
carne di terra che non vuole guerra:
è questa terra, che io fui seminato,
vita ho vissuto che dentro ho piantato,
qui cerco il caldo che il cuore ci sente,
la lunga notte che divento niente.
Femmina penso, se penso l’umano
la mia compagna, ti prendo per mano.

Edoardo Sanguineti, “La ballata delle donne“,

Sembrare una fotografia

Alise comportava, inoltre, un foulard di seta di un verde intenso e capelli biondi straordinariamente folti, che incorniciavano il viso con una massa fitta fitta di riccioli. Alise guardava attraverso due occhi azzurri spalancati, e una pelle fresca e dorata segnava i confini del suo volume. Possedeva braccia e polpacci tondi, una vita sottile e un busto così ben disegnato da sembrare una fotografia.

Boris Vian, La schiuma dei giorni (pp.27-28). Marcos y Marcos.

Le ragazze

Le ragazze, quelle che camminano

con stivali di occhi neri

sui fiori del mio cuore.

Le ragazze, che abbassano le lance

sui laghi delle proprie ciglia.

Le ragazze che lavano le gambe

nel lago delle mie parole.

Velimir Chlébnikov

(Traduzione di Angelo Maria Ripellino)

I vicini che non capiscono

“Una piccola chiesa dove si canta in un’altra lingua; una pietanza che si prepara da diversi secoli in decine di case nei dintorni, un piatto che, forse, è l’unico ricordo di quel lungo viaggio dalle montagne innevate che un tempo avevano intrapreso gli antenati; un mestiere arrivato da una patria lontana; delle parole in un’altra lingua ascoltate durante l’infanzia, che i vicini non capiscono”.

Olesja Jaremčuk, Mosaico Ucraina, 2022 – introduzione