Mika Yamamoto, nata il 26 maggio 1967 a Tsuru, nella prefettura di Yamanashi, era una giornalista giapponese che ha dedicato la sua vita a raccontare le verità più scomode dai fronti di guerra. Fin da giovane, Mika mostrava un profondo senso di giustizia e un innato interesse per le storie degli emarginati. Figlia di un giornalista dell’Asahi Shimbun, era cresciuta circondata dal valore della parola scritta, imparando che il giornalismo non era solo un lavoro, ma una missione. Dopo essersi laureata all’Università di Tsuru, Mika ha iniziato la sua carriera nel 1990 con Asahi Newstar, un’esperienza che le ha permesso di immergersi nel mondo del reportage televisivo. Il suo spirito irrequieto l’ha spinta però verso altri traguardi: voleva uscire dagli studi televisivi, voleva vedere con i suoi occhi e raccontare direttamente dal cuore degli eventi.
Nel 1996 si unì a Japan Press, un’agenzia indipendente, trovando il suo spazio naturale nel giornalismo di guerra. Mika scelse di documentare i conflitti nei luoghi più difficili del mondo: Bosnia, Kosovo, Cecenia, Afghanistan, Iraq. Non era solo una cronista, era una narratrice dell’umanità ferita. La sua videocamera non puntava solo sui soldati o sulle esplosioni, ma sugli occhi delle donne, dei bambini, degli anziani che sopravvivevano in condizioni impossibili. Raccontava le storie di chi non aveva voce, di chi viveva nell’ombra della distruzione. In Afghanistan, ad esempio, denunciò instancabilmente le terribili condizioni delle donne sotto il regime talebano, trasformando la sua penna e la sua videocamera in strumenti di lotta contro l’indifferenza.

Essere una giornalista in guerra significa vivere con il costante peso della paura e dell’incertezza, ma anche con la convinzione che il proprio lavoro possa fare la differenza. Mika affrontava ogni missione con coraggio e dedizione. Nel 2003, durante la guerra in Iraq, si trovava al Palestine Hotel di Baghdad quando un carro armato statunitense colpì l’edificio. Due giornalisti persero la vita, e Mika, nonostante lo shock, corse immediatamente a prestare soccorso. Il suo istinto non era solo quello di sopravvivere, ma di aiutare, di essere lì per chi ne aveva bisogno. Fu un episodio che mise in luce il suo straordinario altruismo, una qualità che l’ha sempre distinta.
Nel 2012, Mika decise di recarsi in Siria per documentare la guerra civile. Mika Yamamoto, nata il 26 maggio 1967 a Tsuru, nella prefettura di Yamanashi, era una giornalista giapponese che ha dedicato la sua vita a raccontare le verità più scomode dai fronti di guerra. Fin da giovane, Mika mostrava un profondo senso di giustizia e un innato interesse per le storie degli emarginati. Figlia di un giornalista dell’Asahi Shimbun, era cresciuta circondata dal valore della parola scritta, imparando che il giornalismo non era solo un lavoro, ma una missione. Dopo essersi laureata all’Università di Tsuru, Mika ha iniziato la sua carriera nel 1990 con Asahi Newstar, un’esperienza che le ha permesso di immergersi nel mondo del reportage televisivo. Ma il suo spirito irrequieto la portava a desiderare di più: voleva uscire dagli studi televisivi, voleva vedere con i suoi occhi e raccontare direttamente dal cuore degli eventi.

La morte di Mika Yamamoto non fu solo una perdita personale per chi la conosceva, ma anche un duro colpo per il mondo del giornalismo. Colleghi e amici la ricordano come una professionista instancabile, sempre pronta a rischiare tutto pur di portare la verità al mondo. Miyuki Hokugou, amica e giornalista dell’Asahi Shimbun, disse: “Mika perseguiva una vera missione. Era una giornalista eccezionale, una figura che avrebbe meritato maggiore riconoscimento già in vita. Il fatto che il suo nome sia diventato noto solo dopo la sua morte è ingiusto.”
Mika Yamamoto ha ricevuto numerosi riconoscimenti postumi, tra cui il prestigioso World Press Freedom Hero. Il suo nome è stato legato a premi e iniziative che onorano il coraggio e la dedizione dei giornalisti di guerra. Ma il suo vero lascito non sta nei premi, bensì nelle storie che ha raccontato, nelle immagini che ha catturato, nelle vite che ha toccato. Essere un giornalista in guerra significa affrontare il dolore degli altri, assorbirlo e trasformarlo in parole e immagini capaci di scuotere le coscienze. Mika incarnava questa missione con una dedizione totale, sacrificando tutto per portare alla luce le verità che altri preferivano ignorare.
Mika Yamamoto non era solo una reporter, era una testimone della sofferenza umana, una voce per gli invisibili, un faro di coraggio in un mondo spesso avvolto dall’oscurità. La sua storia è un potente richiamo al valore del giornalismo, un promemoria di quanto sia cruciale raccontare ciò che accade nei luoghi dove si consuma il dramma dell’umanità.
Rudi Bakhtiar è una produttrice della Reuters che in precedenza ha lavorato per la CNN. Fox News e Voice of America ed è stato direttore delle comunicazioni della Campagna internazionale per i diritti umani in Iran. Nel 2016 dichiarò alla CNN: “Non ho potuto fare a meno di pensare a Mika mentre le immagini di un bambino ricoperto di sangue che veniva estratto dalle macerie dopo un attacco aereo nella stessa città catturavano l’attenzione del mondo la scorsa settimana. La foto di Omran Daqneesh (foto sotto), seduto da solo e senza emozioni, intriso di sangue e sporcizia, era un simbolo vivido degli innumerevoli altri bambini che hanno subito la stessa sorte, in una crescente crisi umanitaria che attanaglia la Siria da cinque anni.

Conosciamo il terribile costo umano della guerra civile siriana soprattutto grazie al lavoro impavido di persone come Mika. Testimoniare e raccontare le atrocità umane ha un costo pesante per i giornalisti che si recano in una zona di guerra, sapendo che potrebbero non uscirne vivi.”