Ci sono due cantanti afghane, con il burqa. Quelli che stanno interpretando sono versi di una canzone nuova che hanno comunque un sapore antico, versi strazianti scritti da una donna che non c’è più.
L’autrice si chiamava Nadia Anjuman ed è morta a 25 anni, era una giovane e brillante poetessa comparsa e dissolta nella polvere di un paese che non ha mai avuto un futuro, un presente, ma solo un passato, fatto di guerre e “grandi giochi” tra nazioni di un altro continente.
Nadia era originaria di Herat, ha vissuto sulla propria pelle l’invasione sovietica, la guerra civile e gli anni del dominio talebano precedente a quello odierno. Prima dell’arrivo degli “studenti del Corano” aveva frequentato una scuola femminile della sua città e si distinse per le sua bravura e la sua intelligenza.
Nadia voleva continuare gli studi e per farlo decise di rischiare. Molte giovani donne della città avevano ricevuto il permesso dai talebani di riunirsi per impartire e ricevere lezioni di cucito, l’unica attività consentita dal governo del Paese. In realtà la scusa della sartoria era funzionale a tutt’altro. Ad Herat Nadia e altre studentesse frequentavano tre volte alla settimana una scuola sotterranea in cui i docenti dell’Università di Herat, come il professor Muhammad Ali Rahyab, parlavano di letteratura. Tra le loro mani scorrevano le pagine dei più grandi poeti persiani classici e moderni, Hafiz Shirazi, Bidel Dehlavi, Forough Farrokhzad e altri, ed è qui che Nadia iniziò a scrivere poesie, mentre sopra di lei, bambini facevano da vedette e segnalavano ogni avvistamento della polizia religiosa talebana. Se c’era un pericolo imminente tutti smettevano di leggere o discutere, prendevano ago e filo e facevano finta di ricamare.
Nel 2001 i talebani caddero in seguito all’intervento degli Stati Uniti in Afghanistan e quello che era un circolo del cucito non aveva più ragione di essere. Le università tornarono attive e anche la facoltà di letteratura aprì di nuovo le porte a molti giovani del Paese. Nadia conosceva e apprendeva molto velocemente, si iscrisse a lingue e letteratura farsi, ma soprattutto scriveva, dando forma ad un volume di poesie intitolato “Sul-i Dudi” (Il fiore di cenere) che la fece conoscere in Afghanistan, Pakistan e Iran.
Nel frattempo Nadia si sposò con Farid, laureato in lettere ad Herat e diventato da poco il capo della biblioteca della città. Farid e la sua famiglia non videro di buon occhio il fatto che una donna avesse deciso di intraprendere un’attività letteraria, così decise di impedire a sua moglie di partecipare a riunioni tematiche e di terminare i propri studi.
Una sera, il 4 novembre 2005, la picchiò fino ad ucciderla.
Era l’Eid-al-Fitr (l’ultimo giorno del mese sacro del Ramadan), uno dei momenti in cui gran parte delle famiglie afghane di fede islamica si ritrovavano per cenare assieme. Nadia aveva una voglia matta di rivedere i suoi e soprattutto sua sorella. Non era destino, non era scritto da nessuna parte che potesse farlo. Per questo iniziò a discutere con Farid che la prese a pugni fino a farle perdere conoscenza, portandola poi in ospedale con un risciò. L’autista disse alle autorità che Nadia era già morta quando venne caricata a bordo del mezzo, mentre Farid, dal canto suo, riferì che tra lui e la moglie c’era stato un acceso diverbio, erano volati dei pugni, poi Nadia aveva preso del veleno e aveva chiesto al marito di dire agli amici e alla famiglia che era morta di infarto. Non c’è stata alcuna autopsia, ma gli inquirenti avevano raccolto abbastanza prove per capire che dietro alla morte della giovane venticinquenne c’erano il marito e la suocera che aveva cercato di coprire l’accaduto, sviando le indagini.
Farid Ahmad Majid Neia fu condannato e incarcerato per aver ucciso Nadia Anjuman. Gli anziani di Herat chiesero al padre malato di Nadia di perdonare Farid per abbreviargli la pena a 5 anni e lui lo fece. La giustizia afghana però interpretò il gesto molto diversamente, considerando la morte di Nadia un suicidio e scarcerando dopo un solo mese Farid.
Il padre della giovane morì, la famiglia sostiene sia stato per colpa del dispiacere.
Divento fumo nello spazio del mio credo
Lentamente mi avvolgo e mi anniento
Finché vengo allevata dalle mani dell’ansia
Nell’abisso del cuore i miei battiti aumentano
E quel battito intende conoscere la terra della fossa del tardi
Mi preparo al momento trascorso
A volte dall’amore arido e dal buon miraggio di una nuvola
Mi trasformo nel più arido deserto salato
Ma l’immaginazione dei miei occhi mi trasforma in acqua
Nel letto della morte per sete, mi trasformo in ruscello
Se arriva a me il capo di uno dei fili della speranza
Divento l’ordito nella sottile trama del cuore
Questo se n’è andato senza commiato, l’immaginazione mi porta via
Sono ancora io che mi riempio di ricordi
Anche la notte un po’ alla volta va per la sua strada e io
Divento il più triste canto d’addio
Nei giorni della sua morte Nadia stava lavorando al secondo libro di poesie, che verrà pubblicato postumo, intitolato Yek Sabad Delkhora (\”Un\’abbondanza di preoccupazioni\”)
Il fatto che Nadia sia stata uccisa nel 2005, senza talebani alla guida dell’Afghanistan, evidenzia che le donne non hanno mai davvero avuto vita facile a Kabul, Herat o altri grandi centri del Paese, men che meno nelle zone rurali dove ancora vige una società saldamente patriarcale. Ma c’è di più. L’esperienza di Nadia definisce meglio il modo in cui l’ambiente circostante, la parte di mondo in cui si è nati , gli avvenimenti e le condizioni di vita quotidiana influiscano sulla produzione e sulla fruizione letteraria. In questo caso, una ragazza di 25 anni è riuscita a laurearsi, a scrivere poesie e a pubblicarle in uno stato che è riuscito comunque ad ucciderla. Per quanto la sua possa essere sembrata un’attività futile e lasciva, agli occhi di uomini e famiglie ancorate nel passato, a vincere la morte e continuare a vivere, ancora oggi, è stata proprio Nadia. Se le sue parole continuano ad essere una zona di conforto per calmare sofferenza e la ritrovata oppressione di un regime, allora non è davvero caduta invano.