Stalin era morto… ma non era ancora sepolto. Aveva sempre amato schiacciare le persone una contro l’altra, pressarle, lasciarle senz’aria e senza spazio, senza risorse; aveva sempre amato rinchiuderle e stiparle, circondarle, immobilizzarle: il «canile» di ingresso alla Lubjanka, con tre prigionieri per ogni metro di pavimento; Ivanovo, con 323 uomini in una cella da venti, o Strachovič, con ventotto uomini in una cella di isolamento; o trentasei in un compartimento ferroviario, o un furgone cellulare talmente pieno che gli urka non riuscivano neanche a derubare gli altri, o gli zek legati a coppie e affastellati come tronchi nel cassone di un camion, diretti all’esecuzione…
Il giorno del funerale di Stalin enormi moltitudini, estatiche di falso dolore e falso amore, fluirono attraverso Mosca in densità pericolose. Quando, in mezzo alla folla assiepata, i movimenti non ti appartengono piú e devi lottare per respirare, un’idea semplice e angosciante si fa strada dentro di te riempiendoti di panico: se arriverà la morte, sarà causata dalla vita, dalla troppa vita, da una sovrabbondanza di vita. E comunque, che cosa ci facevano lí tutte quelle persone in lutto per lui? Quel giorno ben piú di un centinaio di persone morirono asfissiate nelle strade di Mosca. Cosí Stalin, imbalsamato nella sua bara, continuò a fare la cosa che gli riusciva meglio: stritolare i russi.
Martin Amis, in Koba il Terribile: una risata e venti milioni di morti, 2003